
Chiunque, almeno una volta nella vita, ha effettuato un reso di un acquisto online. Magari perché la taglia o il colore non erano quelli giusti, o perché le caratteristiche del tessuto non rispecchiavano la descrizione. O, semplicemente, il prodotto non era quello che ci si aspettava.
Tutte motivazioni valide dato che, soprattutto per quanto riguarda la moda, comprare online è molto spesso un punto interrogativo fin quando il pacco non arriva a casa.
Ma quella del reso sta diventando una tendenza troppo insostenibile: un quarto del totale dei consumatori restituisce dal 5% al 15% dei prodotti acquistati online. Ad affermarlo è un report dell’ente britannico IMRG, diffuso nel 2021. A livello europeo, l’Italia è il Paese con il più basso tasso di resi (16%), forse anche perché sul fronte della digitalizzazione è parecchio in ritardo. Al contrario di Francia, Germania e Svizzera, che rispettivamente rispediscono al mittente una percentuale di acquisti del 24%, del 44% e del 45%. E le categorie maggiormente colpite, sempre a livello europeo, sono l’abbigliamento (38%), le scarpe (29%) e gli accessori (25%). Un trend in continuo aumento.
Che fine fanno i resi degli acquisti online?
Spesso, per policy, i resi dei prodotti vengono effettuati in maniera totalmente gratuita per il cliente finale, ma per le aziende sono solo un costo. Infatti, uno studio della start-up italiana Yocabè, nata per supportare le imprese nella relazione con i marketplace, evidenzia che ogni reso “nazionale” all’azienda italiana costa circa 13 euro a pacco. E se ci spostiamo oltre confine la situazione cambia decisamente in peggio: ogni reso dalla Germania costerebbe 23 euro, mentre dalla Svizzera raggiungerebbe anche i 30 euro.
Paradossalmente, sarebbe più conveniente buttare i prodotti piuttosto che rimetterli in vendita, soprattutto se il bene in questione è di basso valore. A sostenerlo sono i ricercatori dell’Università di Lund, in Svezia, dopo aver condotto un’indagine nell’industria tessile ed elettronica. Inoltre, secondo il report annuale della National Retail Federation americana, l’impatto economico dei resi sui retailer è pari a 165 milioni di dollari per ogni miliardo di dollari di vendite.
Per ogni 100 dollari di prodotti resi, i negozianti perdono circa 10,4 dollari a causa delle frodi. Ma l’impatto negativo è anche (e soprattutto) sulla nostra Terra, sotto diversi punti di vista: trasporti extra sia per la spedizione di reso che di sostituzione del prodotto, nuovi imballaggi necessari per consegne o restituzioni, costi e residui di smaltimento per la merce che non viene rimessa in vendita.
Le soluzioni esistono
Per questo motivo, è nata la necessità di ridurre al massimo l’incidenza dei resi sulle vendite attraverso una serie di azioni. Come spiega Vito Perrone, ceo di Yocabè, grazie alla tecnologia
e ai contenuti si possono realizzare delle presentazioni più efficaci, strumenti di comparazione delle taglie e delle immagini precise e accattivanti. Importante è, inoltre, anche migliorare la business intelligence (processi aziendali volti a raccogliere dati e analizzare informazioni strategiche) e ottimizzare i tempi e i costi di gestione dei resi. Fortunatamente qualche realtà si sta attivando in merito e già alcuni marchi hanno introdotto spontaneamente sui loro siti le spese di reso. Molti altri, invece, puntano a sensibilizzare il cliente, mostrando il costo ambientale della restituzione in termini di CO2. Questo perché, come è emerso in una ricerca sui consumatori e i trend del mondo e-commerce 2021/2022 di Sendcloud, prima di acquistare online i clienti controllano la politica di reso e il 74% di loro non comprerebbe se la restituzione fosse a pagamento.
Il consumatore, quindi, risulta essere il primo da istruire per poter risolvere questo grande gap dei resi degli e-commerce perchè non sono gratuiti. E a pagarli è proprio l’ambiente.
di Sara Fumagallo
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